Per parlare di jazz in Italia, della sua diffusione e della possibilità concreta di formare nuovi giovani talenti abbiamo intervistato Aldo Farias che ci ha anche raccontato delle sue esperienze, dei suoi gusti musicali e dei suoi progetti futuri.
Nato a Napoli nel 1961, chitarrista, compositore e docente di chitarra jazz al conservatorio G. Martucci di Salerno, Aldo Farias fa parte di una generazione di musicisti del panorama jazz italiano ancora capaci di rinnovarsi con gli anni. Different ways è il suo ultimo lavoro, uscito nel 2013 e pubblicato dalla Wide Sound. Il suono intimista della sua chitarra, continua ad aprirsi alle contaminazioni della musica europea e afroamericana e mostra un abile equilibrio tra scrittura ed improvvisazione.
Quali sono, secondo te, le correnti jazzistiche che oggi influenzano maggiormente il panorama musicale europeo? E che differenze ci sono rispetto al nostro Paese?
La musica Afro-Americana, in Europa, ha sempre avuto contaminazioni legate alle radici culturali e popolari esistenti nei paesi in cui si è sviluppata. Basti pensare al lavoro svolto da musicisti come Richard Galliano, Michel Petrucciani, Jean luc Ponty in Francia; da John Taylor, John McLaughlin, Allan Holdswort in Inghilterra; Hank Bennink e Misha Mengelberg in Olanda, Albert Mangelsdorff e Peter Brotzman,in Germania; Jan Garbarek in Norvegia,ecc.. Questi grandi musicisti hanno contribuito a creare un gruppo eterogeneo di stili, ognuno con le proprie peculiarità. Il nostro paese si inserisce in questo contesto in cui si attinge alla stessa tradizione, con le differenze legate alla forte matrice melodica italiana e le influenze dei paesi del mediterraneo.
La tua musica, come si inserisce in questo contesto?
Da tanti anni lavoro ad una ricerca di sintesi tra la cultura tradizionale jazzistica e le contaminazioni della musica europea, scrivendo negli anni molte composizioni con questo obiettivo. Già nel 1992, la pubblicazione del Cd “Jazz Mèditerranèe” vede la partecipazione del sassofonista statunitense Bob Berg come testimonianza di un ponte fra le due culture. Negli anni, inoltre, ho avuto modo di collaborare con altri musicisti come Steve Grossman, Mike Mainieri, Steve Turrè, Frank Lacy, Richie Cole, confrontandomi con le loro radici musicali.
Attualmente, sei docente di chitarra jazz presso il Conservatorio G. Martucci di Salerno. In base alla tua esperienza, cosa pensi del modo in cui viene gestita la formazione dei musicisti in Italia?
Oggi esistono, nel nostro paese, molte istituzioni tra il pubblico ed il privato in grado di offrire una formazione musicale. Nei conservatori italiani è possibile frequentare un corso di laurea triennale ed un biennio di specializzazione in cui, oltre all’indirizzo strumentale, è possibile studiare composizione, arrangiamento,e molte altre materie complementari come informatica musicale, video scrittura, ecc… Sicuramente il sistema didattico è perfettibile: c’è molta attenzione al percorso di alto perfezionamento, mentre le formazione musicale dei giovani, a partire dai primi anni di scuola, non è all’altezza degli standard europei.
Oggi, quanto e come è diffuso il jazz a Napoli e in Campania? Quali sono i nuovi talenti e se ce ne sono, quanto spazio viene dato loro in un contesto sempre così complesso e competitivo?
Il panorama jazzistico in Campania e a Napoli è sempre stato ricco di talenti e di fermento musicale. Oggi però, rispetto agli anni precedenti, ci sono meno spazi per la musica dal vivo e purtroppo, escludendo i festival estivi, non esiste una struttura istituzionale che possa contribuire allo sviluppo di nuovi talenti. Basti pensare che solo a due ore di distanza, a Roma, ci sono tre auditorium, la Casa del Jazz e molti jazz club.
Lo scorso settembre, si è tenuta La Maratona del Jazz Italiano a L’Aquila, per sostenere la ricostruzione civile e culturale della città in seguito al terremoto. Con oltre 600 musicisti e 100 concerti in tutta Italia, è stato definito come il più grande evento jazzistico mai organizzato nel nostro Paese e il Ministro Franceschini ha espresso la volontà di renderlo un appuntamento annuale. Hai preso parte a questo evento? Che ripercussioni ha avuto e avrà sulla sensibilizzazione e sulla promozione del jazz italiano?
Per altri impegni non ho potuto partecipare all’evento a l’Aquila, ma penso che in Italia ci sia bisogno più che di un evento speciale, di una rivalutazione culturale che possa garantire una continuità musicale sul territorio tutto l’anno, con la costituzione di un’orchestra nazionale di jazz – come succede a Parigi – e di sale da concerto che possano offrire la possibilità ai musicisti di presentare con costanza i propri progetti musicali. Inoltre, sarebbe bello che ogni scuola ad indirizzo musicale fosse dotata di una piccola orchestra giovanile.
Il cinema americano, soprattutto a partire dagli anni ’80, ha cominciato a riservare sempre più spazio ai jazz-movies. Soltanto l’anno scorso, hanno trionfato agli Academy Awards, “Whiplash”e “Birdman”; quest’ultimo, con l’incredibile colonna sonora di Antonio Sanchez. In più, ad aprile uscirà “Miles Ahead”, un biopic su Miles Davis diretto e interpretato da Don Cheadle. Quanto questi film sono vicini alla vita reale dei jazzisti e qual è il tuo jazz-movie preferito?
Negli anni molti registi sono stati affascinati dal jazz e dai suoi interpreti. Gli aspetti della vita dei musicisti spesso vengono spettacolarizzati,chiaramente al fine di colpire i non addetti ai lavori. A tal proposito, ho trovato un po’ eccessiva la figura del maestro violento in Whiplash. Tra i miei preferiti ci sono il film di Tavernier, “Round Midnight”, ispirato alla vita dei jazzisti Lester Young e Bud Powell, con la bellissima interpretazione di Dexter Gordon, insieme a tanti altri musicisti, come Herbie Hancock e John McLaughlin, e “Bird” di Clint Eastwood, biopic sulla vita di Charlie Parker, interpretato da Forest Whitaker, in cui sono state scritte delle nuove rhythm-section sui soli originali di Parker.
L’anno scorso ci hanno lasciato due nomi importanti del jazz italiano: Marco Tamburini e Alberto D’Anna. Quali esperienze hai condiviso con loro e che ricordo hai di entrambi?
Marco Tamburini e Alberto D’Anna sono stati musicisti di gran levatura nel panorama jazzistico italiano. Marco, oltre ad esser stato un grandissimo trombettista, era anche un ottimo didatta. Con Alberto D’Anna, un musicista con un grande talento ritmico, al quale ero molto legato, ho condiviso diverse esperienze intense, come i tanti concerti fatti insieme; le due registrazioni, Murales (2001) e Languages (2007), sono qui a testimoniarlo.
Un progetto per il futuro o un sogno che non hai ancora realizzato?
Molti sono i propositi in cantiere e le cose da realizzare. Tra questi, un progetto discografico molto stimolante che conterrà arrangiamenti di mie composizioni per chitarra e quartetto d’archi.
Angelica Falcone